Chi è, un martire? Il Catechismo della Chiesa Cattolica risponde con queste parole: «Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità (n. 2473)». Il martire, inoltre, «rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza (ibidem)». La sua vita, trascorsa spesso e volentieri in un contesto storico, sociale e culturale molto diverso da quello descritto nel Vangelo, diventa però – grazie alla radicalità del suo testimoniare il Cristo – un’icona, particolarmente chiara e bella, di ciò che è stata la vita del Figlio di Dio, del Suo sacrificio redentore, del Suo essere Signore del tempo e della storia.
Oggi, nelle Cause di Beatificazione e Canonizzazione, la Chiesa esige che siano comprovati tre elementi, perché si possa riconoscere nel morire di un battezzato l’atto di un martirio nel pieno senso teologale del termine. In gergo tecnico, questi tre elementi vengono definiti come: martirio materiale; martirio formale da parte del Servo di Dio (o “della vittima”, cioè di chi patisce, di chi subisce la morte); martirio formale da parte del persecutore (inteso come colui che infligge o procura tale morte).
Per martirio materiale si intende la morte violenta, cui il testimone della fede va incontro a causa della brutalità dell’azione persecutoria su di lui: può trattarsi di una morte immediata, sopraggiunta (come così spesso è accaduto nel contesto dei regimi totalitari novecenteschi) comminando condanne alla pena capitale, poi eseguite secondo le modalità vigenti nei singoli paesi; oppure può trattarsi di una morte causalmente connessa all’azione persecutoria, ma sopraggiunta a una relativa distanza di tempo. In tale caso, la Chiesa riconosce che il persecutore ha abbreviato in maniera significativa la vita del Servo di Dio, dopo averne compromesso la qualità e averne minato resistenza e integrità psicofisica. Ad una morte immediata – per restare in terra salesiana, e in paesi che confinano con la Slovacchia – si devono per esempio ricondurre i casi di István Sándor (giustiziato nel 1953 in Ungheria) o dei giovani oratoriani di Poznan, Polonia, morti nel 1942. Ad una morte differita nel tempo ma dovuta a torture, vessazioni, azioni esplicitamente contrarie alla dignità umana e altamente lesive, si deve invece ricondurre lo stesso caso di Titus Zeman.
Per martirio formale da parte del persecutore, si intende che una o più persone devono infierire su un’altra / altre in odio alla fede, per così dire nell’illusorio nonché vano tentativo di annullare la persona stessa del Cristo nella persona di coloro che si professano, in parole e opere, suoi discepoli.
Per martirio formale da parte della vittima, si intende che un credente deve disporsi a ricevere la morte in un atto di grande amore, a difesa della retta fede, nella Chiesa e per essa.
Così, il persecutore non uccide la vittima perché colpevole di un reato (il martirio esige innocenza), né per una antipatia personale o un regolamento di conti: ma riconoscendo in essa la sua appartenenza eroica al Cristo – appartenenza che diviene scardinante per le certezze del persecutore, sino a tradursi in quel tacito appello alla conversione, che egli però non può sopportare né d’altra parte vuole raccogliere. Il martire dunque non si proporrà mai in modo volontario alla morte: la vita è dono di Dio, da amare, custodire, difendere. Accetterà però la morte – non senza sgomento, paura e angoscia, ma sostenuto da quella fortezza e speranza che sono dono di Dio – qualora il preservare la propria incolumità fisica lo obbligasse ad abiurare, rinnegare, tradire. In tali casi, piuttosto che commettere il male, “autorizzandolo”, in tal modo, nella propria persona, il martire preferisce subirlo. Offre allora a Dio la propria vita – fragile, ma integra – e attira nella propria offerta la vita stessa del persecutore, sul quale invoca il perdono e al quale non smette, nemmeno nel morire, di tendere la mano. Il credente che muore diventa, così, testimone autentico, testimone fino al dono totale di sé: un dono innestato sul sacrificio di Cristo, dal quale egli – come tralcio della vite – trae forza, fecondità, bellezza. Può allora essere detto – etimologicamente – “martire”.
Autore: Lodovica Maria Zanet