Beato Tito Zeman, SDB (1915-1969)

Omelia[1]

Angelo Card. Amato, SDB

1. Recentemente Papa Francesco ha detto, che «la risorsa più bella che può avere un popolo è la risorsa dei santi».[2] E la Slovacchia può vantare una splendida corona di santi e di martiri, testimoni coraggiosi di Cristo nella storia.
L’infelice dittatura comunista del secolo scorso aveva trasformato la vostra patria in un triste campo di prigionia. Il rancore era rivolto soprattutto verso la Chiesa, che manteneva viva l’identità del popolo slovacco, difendendone la libertà e la dignità. Furono soppresse le scuole cattoliche e confiscati i loro beni; arrestati e condannati vescovi, sacerdoti e laici. In questo clima di autentica persecuzione i cristiani hanno dimostrato che l’amore è più forte dell’odio e che la verità alla fine vince sulla menzogna.
È stata una prova che la comunità cristiana ha sostenuto con coraggio e determinazione, rafforzando la sua fede, anche grazie alla testimonianza e al sangue di numerosi fedeli.[3]
Dopo il ritorno alla libertà, infatti, la Chiesa slovacca ha celebrato la canonizzazione dei tre Martiri di Košice, nel 1995, e la beatificazione, nel 2001, del redentorista Metod Dominik Trčka, del basiliano Pavel Peter Gojdič, anch’egli nel 2001, del Vescovo Vasil’ Hopko e del beata Zdenka Schelingová, nel 2003. A questo glorioso corteo di martiri di ieri e di oggi si unisce il salesiano Tito Zeman, vittima della tirannia comunista del secolo scorso.

2. Il martirio è la suprema manifestazione dell’amore a Cristo e alla Chiesa. Il sangue dei martiri congiunge il nostro tempo ai primi secoli cristiani, quando i battezzati suggellavano con il sacrificio della vita la loro testimonianza di fede e di fedeltà al Vangelo. Era un mirabile spettacolo di coraggio. I martiri sapevano di essere i testimoni di una carità senza confini, infusa nei loro cuori da Dio, carità infinita.
Gesù, il primo martire, ci esorta a non aver paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima (cf.Mt 10,28). L’apostolo Giovanni spronava i primi cristiani ad amare il prossimo e a non odiare nessuno, come, invece, fanno i figli delle tenebre: «Chiunque odia il proprio fratello – dice l’Apostolo – è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna. Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,15-16)».

3. Donare la vita per i fratelli, fu l’ideale del Beato Tito Zeman.[4] Fu arrestato perché aiutava seminaristi e sacerdoti a espatriare per vivere il loro ideale apostolico. Fu, quindi, condannato per alto tradimento ai lavori forzati. Fra l’altro fu destinato all’orrore della cosiddetta “Torre della Morte”. Qui egli era costretto a lavorare a mano la pechblenda, per ricavarne l’uranio, che – come si sa – è un metallo altamente tossico e radioattivo. A un controllo medico gli misurarono la radioattività del corpo, trovandola elevatissima. Per questo Don Zeman era diventato un “mukl”, un uomo, cioè, destinato all’eliminazione fisica.[5] Le pesanti irradiazioni, il freddo, l’usura delle forze e la consapevolezza di essere uomini da sopprimere come insetti rendevano il cosiddetto posto di lavoro un autentico campo di sterminio.

4. Ma egli seppe affrontare l’orrore della prigione con fede, con coraggio, con la speranza che un giorno la verità avrebbe prevalso sulla menzogna. La protezione di Maria Ausiliatrice lo sostenne nel perseverare nel bene. Ma era soprattutto la carità, che lo ispirava a vivere in grado eroico il suo martirio quotidiano. La sua prigionia fu da lui trasformata in sacrificio di redenzione per gli altri. Citando la Scrittura, un testimone afferma: «Nessuno ha un amore più grande verso Dio di colui che in piena coscienza e costantemente pone la propria vita al servizio degli altri. La sua fedeltà alla Chiesa si manifestava nella preparazione della futura generazione apostolica per i giovani».[6]
La sua fu una autentica carità evangelica, che non tiene conto del male ricevuto, che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta; una carità capace di non fare mai il nome dei delatori; di non mettere in difficoltà le spie che – per riguardo a lui – arrivavano addirittura a confessargli la propria attività a suo danno; di perdonare di cuore i persecutori.
Don Tito era solito dire: «Meglio perdonare e dimenticare».[7] Una teste ribadisce che «il fatto che perdonò i suoi persecutori, che lo avevano insultato molto, testimonia della sua fortezza morale».[8]
Egli è, quindi, testimone di quell’amore più grande, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 33,11).

5. Una considerazione la dedichiamo alla tonalità salesiana del suo martirio.[9] Si tratta di un aspetto spesso trascurato ma essenziale nell’impegnativo apostolato dell’educazione dei giovani.
Don Bosco ripeteva spesso che quando un salesiano soccombe, lavorando per le anime, la Congregazione avrà riportato un grande trionfo. E il grande educatore della gioventù parlava non solo di quel logorante martirio quotidiano, che è la carità pastorale verso i giovani, ma anche del martirio cruento: «Se il Signore nella sua Provvidenza volesse disporre – diceva il Santo – che alcuni di noi subissero il martirio, forse per questo ci avremmo da spaventare?».[10]
E la profezia si è avverata. La santità martiriale è di casa nella giovane famiglia salesiana, che conta già un centinaio di martiri. Oltre alla canonizzazione, il 1° ottobre del 2000, dei martiri, Mons. Luigi Versiglia e Don Callisto Caravario, missionari in Cina, si è avuta la beatificazione, nel 1999, di Don Giuseppe Kowalski e cinque giovani dell’oratorio salesiano di Poznan, anch’essi vittime delle dittature anticristiane del secolo scorso. Nel 2011 sono stati beatificati il salesiano spagnolo Giuseppe Calasanz Marqués e 31 Compagni martiri (16 sacerdoti, 7 coadiutori, 6 chierici; 2 Figlie di Maria Ausiliatrice; 1 collaboratore laico), tutti martirizzati durante la persecuzione spagnola della fine degli anni trenta del secolo scorso. Ancora, nel 2007 c’è stata la beatificazione del salesiano spagnolo Enrico Saiz Aparicio e di 62 compagni martiri (22 sacerdoti, 18 coadiutori, 16 chierici, 3 aspiranti, 3 cooperatori e 1 collaboratore laico), uccisi anch’essi in odio alla fede durante la stessa persecuzione. Più recentemente, nel 2013, c’è stata la beatificazione del salesiano coadiutore, Stefano Sándor, martirizzato durante la dittatura comunista in Ungheria.
Ci sono altri due aspetti che rendono originale il martirio dei salesiani. Anzitutto la carità pastorale, che porta i figli di Don Bosco a dare la vita per preservare i giovani dal male di ogni ideologia perversa. In secondo luogo la preghiera «da mihi animas” unita al «cetera tolle», che, come per Don Bosco, anche per Don Tito, ha significato la salvezza dei giovani a costo della sua libertà e della sua vita.
Martire per le vocazioni si può definire il Beato Tito Zeman. Egli amava la sua vocazione di salesiano e di sacerdote e desiderava che anche altri giovani vivessero nella libertà il sogno della loro consacrazione al Signore.
È un messaggio per tutti noi oggi. La riconquistata libertà, unita spesso a una certa dittatura del benessere e della trasgressione, non mortifichi e non spenga gli ideali di chi vuole vivere in pienezza la scelta del bene. Sono i santi e i martiri la risorsa più bella di un popolo.

Beato Tito Zeman, prega per noi!

[1] Tenuta a Bratislava il 30 settembre 2017 durante la cerimonia di beatificazione celebrata all’esterno della Chiesa della Sacra Famiglia.

[2] In «L’Osservatore Romano», 9 agosto 2017, p. 8.

[3] Peter Olexác,  La Chiesa romano-cattolica in Slovacchia, in Jan Mikrut (a cura), La Chiesa Cattolica e il Comunismo in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica, San Pietro in Cariano (Verona), Gabrielli Editori 2016, p. 157-192; Peter Šturák, La Chiesa greco-cattolica in Slovacchia, ib. p. 193-226.

[4] Nacque a Vajnory, vicino a Bratislava (in Slovacchia), il 4 gennaio 1915, primogenito di una famiglia di dieci figli. Diventato salesiano, fu ordinato sacerdote nel 1940. Rischiando la vita, varca più volte il confine per poter portare in Italia alcuni giovani aspiranti al sacerdozio. Arrestato, fu condannato dal regime comunista al carcere e ai lavori forzat. Morì l’8 gennaio 1969. Nel 1991 il processo della Riabilitazione lo proclama definitivamente innocente.

[5] PositioInformatio super martyrio, p. 229.

[6] Ib. p. 371.

[7] Ib. p. 374.

[8] Positio, Summarium Testium, p. 590.

[9] Cf. Lodovica Maria Zanet, Oltre il fiume, verso la salvezza. Titus Zeman martire per le vocazioni, Elledici, Torino 2017.

[10] Memorie Biografiche, vol. XII, p. 13.


Omelia del Rettor Maggiore don Ángel Fernández Artime
Vajnory domenica 1° ottobre 2017

Saluto Sua Ecc.za Mons. Stanislav Zvolenský, Arcivescovo di Bratislava, la comunità cristiana di Vajnory, la Famiglia Salesiana della Slovacchia, tutte le autorità civilie a tutti coloro che sono uniti a noi attraverso TV Lux. Un saluto speciale alle sorelle e ai parenti del nuovo Beato, ai numerosi amici di don Titus, a coloro che hanno offerto a diverso titolo il loro contributo nell’accompagnare il processo di beatificazione, iniziato ufficialmente qui a Bratislava il 26 febbraio 2010.

Celebriamo questa eucaristia qui a Vainory, il luogo dove iniziò e si concluse la vicenda terrena del nostro fratello Titus. Qui è nato, è stato battezzato e cresimato, ha celebrato la Prima Messa e ha terminato la sua buona battaglia di fedele discepolo di Gesù fino al martirio.

Oggi più che mai sono profetiche le parole pronunciate proprio qui l´11 gennaio del 1969 da Don Andrej Dermek, ispettore dei salesiani in Slovacchia, durante i funerali di don Titus

C´incontriamo nel cimitero… come i primi cristiani nelle catacombe… In questo posto incomincia oggi a riposare il combattente che lottò sino alla fine, il sacerdote che finì di celebrare la sua messa di vita… Nessuno di noi e di voi intuì, e nemmeno lui stesso, che cosa gli preparava la vita. Solo una cosa fu certa, cioè che in quel rosario di vita non ci sarebbero stati solo i misteri gaudiosi, ma anche quelli dolorosi. Sono stati almeno tanti quanti quelli gaudiosi, ma tutti finiscono con la risurrezione! Si può dire che tutto ciò che trascorse tra la sua prima messa e il suo funerale fu una vita veramente salesiana, religiosa e sacerdotale, anche se di quei ventinove anni di sacerdozio diciotto non poté esercitarli apertamente e liberamente e altri tredici li passò in prigione. Ma la sua vita fu sempre e dappertutto una vita sacerdotale.

A queste parole noi aggiungiamo oggi che la vita di don Titus è una vita santa, riconosciuta dalla Chiesa come una testimonianza di fede e di amore a Gesù, alla Chiesa e ai giovani, secondo il carisma di don Bosco.

Le letture che abbiamo ascoltato hanno anch’esse un aspetto profetico. Si rifanno ad una lettera scritta da don Titus ad un amico nel gennaio del 1951, quando, sotto l’impulso della grazia, manifesta il suo definito passaggio dalla paura alla fede, rivelando le disposizioni interiori che lo avrebbero accompagnato e sostenuto nell’ora della prova, del carcere, della persecuzione e della morte.È la Parola di Dio accolta nella fede, celebrata nell’Eucaristia e vissuta nell’amore fino al dono supremo di sé che nutrì e orientò la vita del nuovo beato.

«Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli». È l’amore che segna il vero passaggio dalla morte alla vita. Sappiamo che la vicenda di don Titus futracciata dai passaggi illegali attraverso la Morava per porre in salvo i giovani confratelli salesiani in formazione e altri sacerdoti. Ma il passaggio più profondo è quello che don Titus visse nel proprio cuore, passando dalla paura alla fede, dalla logica del mondo alla logica del Vangelo, da una vita preoccupata di sé ad un vita offerta ai fratelli, da un modo di vedere e agire secondo impressioni umane ad uno stile di vita guidato dallo Spirito di Dio.

Cari fratelli e sorelle,è questo il primo messaggio che don Titus ci consegna con la sua testimonianza: lasciare che la Parola di Dio, che la grazia dello Spirito Santo ispirino e muovano le nostre scelte, i nostri sentimenti, i nostri pensieri secondo la volontà di Dio.

«Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri». La persecuzione non è una contraddizione al Vangelo, ma ne fa parte: di Titus, un testimone ricorda come aiutasse i giovani a comprendere la normalità della persecuzione verso la Chiesa. Nessuna delle sofferenze dell’uomo, nemmeno le più minute e nascoste, sono invisibili agli occhi di Dio. L’amore di Dio è più forte del male, di chi schiaccia gli altri con prepotenza. Come ha detto papa Francesco: «I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”… un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo». (Udienza del 28 giugno 2017).

Ecco il secondo messaggio che don Titus ci offre: credere all’amore di Dio anche nell’ora della prova, del dolore, dell’incomprensione; sapere vivere nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno.

Infine ritengo che la testimonianza di don Titus e l’evento della sua beatificazione abbiano una grande attualità anche in riferimento alla preparazione e alla celebrazione del prossimo sinodo dedicato al tema: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Don Titus attraverso i passaggi clandestini ha in certo modo incarnato quei passaggi fondamentali del processo di discernimento, che è lo strumento principale con il quale si offre ai giovani la possibilità per scoprire e realizzare, alla luce della fede, la propria vocazione.

Auspico che in particolare per la Chiesa di Dio che è in Slovacchia e per tutta la nostra Famiglia Salesiana il Beato Titus Zeman siauna di quelle figure di riferimento che svolgono«il ruolo di adulti degni di fede, con cui entrare in positiva alleanza, fondamentale in ogni percorso di maturazione umana e di discernimento vocazionale… credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vigorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimento» (Dal Documento preparatorio al Sinodo).

Che Maria Santissima, Addolorata e Ausiliatrice, a cui don Titus fin dall’età di 10 anni promise di «essere suo figlio per sempre», ci ottenga la grazia che, come don Titus ebbe il coraggio di obbedire senza timore al Vangelo e di esporre la vita per i fratelli, il Signore aiuti anche noi ad avere cura del nostro prossimo, fedeli e perseveranti nella vocazione cristiana.