Le testimonianze sono state scelte dal libro „DON TITUS ZEMAN SDB – MARTIRE PER LA SALVEZZA DELLE VOCAZIONI”

Augustín Krivosudský, exallievo dei Salesiani di Trnava, racconta:
Don Titus aveva un fare amichevole. Era sincero, pacato, sobrio, amorevole e delicato nei confronti degli allievi. In caso di necessità sapeva essere deciso e agiva subito, ma sapeva anche essere esigente, senza compromessi né rigore. Da parte degli allievi godeva di un grande rispetto. Caratteristico il sorriso aperto e sincero, che per tutti noi era un invito, indicava che l’incontro con lui sarebbe stato piacevole e si sarebbe svolto in un’atmosfera allegra. Quando entrava con faccia seria e si aggiustava con un dito due o tre volte gli occhiali, sapevamo che le sue parole sarebbero state infuocate e dure. Ma in fondo erano le parole paterne. Era costantemente in movimento. Spesso, camminando per il corridoio, pregava o studiava.

Riguardo al periodo delle torture, don Titus ha dichiarato al signor Augustín Krivosudský:
“Quando mi hanno preso, per me è stata una Via Crucis. Dal punto vista psichico e fisico l’ho vissuta durante il carcere preliminare. In pratica durò due anni. Sotto la finestra si trovava il luogo delle esecuzioni capitali. Ad esso quotidianamente portavano la gente. Sentivo urla e pianti disumani. Li torturavano persino anche in quel posto. Vivevo in una paura continua che in qualsiasi momento si aprisse la porta della mia cella e mi portassero fuori, al luogo d’esecuzione. Vedi, per questo tutti i miei capelli sono diventati bianchi. Se ritorno alle torture inimmaginabili sofferte durante gli interrogatori, ti dico sinceramente che ancora oggi mi vengono i brividi. Nel picchiarmi e nel torturarmi usavano metodi disumani. Per esempio, portavano un secchio pieno di liquame di fogna, in esso mi immergevano la testa e me la tenevano dentro finché non cominciavo a soffocare. Mi davano dei forti calci in tutto il corpo, mi picchiavano con qualsiasi oggetto. Dopo uno di questi colpi per vari giorni sono diventato sordo.“

Don Bernardín Šipkovský SDB lo ricorda così:
Era la seconda guerra mondiale. Verso sera andavo nel nostro teatro a prendere qualcosa. Sul balcone vidi un uomo che fumava. Quando si accorse di me, subito si nascose dietro la porta del balcone del settore disabitato. Come assistente spesso lavoravo nel teatro, ma non ero mai andato dietro quella porta. Raccontai ai confratelli quello che avevo visto. Mi risposero che era un giovane Ebreo. Don Titus lo nascondeva e si prendeva cura di lui. Poi aggiunsero di non parlare di lui con nessuno. Non ho mai saputo come sia finito questo giovane.

A Michal, nipote di cresima, una volta ha detto:
La sera, invece di lasciarti andare a dormire, ti portano in una stanza, dove hai freddo anche se sei vestito, e ti ordinano di svestirti. Poi ti dicono di entrare in un gran buco di pietra, di stenderti sul dorso e tutta la notte ti innaffiano con acqua gelata. Ti è vietato cambiare la posizione, accovacciarti per difenderti almeno un po’ dal freddo. Durante il giorno poi devi stare continuamente in piedi e, la notte seguente, stesso trattamento. Questo era uno dei modi con cui – oltre le botte – mi torturavano. Degli altri modi, per favore, non chiedermi mai più!

Il suo amico detenuto Jozef Lyžica lo ricorda così:
Don Titus era sacerdote – io, non credente. Mi inchino profondamente davanti all’onestà e al sacrificio di quest’uomo. Fu esempio non solo per me, ma per tutti i detenuti, perché ogni giorno adempiva il 180- 190% della norma per aiutare i carcerati che non avevano forza sufficiente per raggiungere la propria quota e perciò non ricevevano il cibo.

Don Anton Srholec sdb, uno dei chierici che partecipò alla passaggio fallito e fu anche lui condannato a vari anni di prigione, ricorda:
Verso metà dicembre del 1968 ho incontrato don Titus. Aveva sempre la sensazione di essere responsabile dell’insuccesso del passaggio clandestino. Portava in sé il trauma della colpevolezza. Lo invitai ad andare a sederci nell’hotel Krym. Quando fummo seduti, mi guardò in faccia e mi chiese:
– Sei arrabbiato, perché è finita così?
Gli risposi:
– Al contrario, don Zeman, sono fiero di aver fatto questa esperienza. Le sono grato per l’interessante percorso della vita.
La mia risposta di non essere arrabbiato con lui lo rese contento.
Come guida si considerava colpevole dell’insuccesso. Si sentiva responsabile per quello che era capitato. Era il giudizio della coscienza di un uomo, che possedeva un senso di colpa superiore a quello giusto. Don Titus è il martire del desiderio della libertà e ha pagato un prezzo enorme per essa, non solo con tanti anni di prigione, ma anche con la salute e, in fin dei conti, con la stessa vita. Benefattore munifico di coloro che aiutò a fuggire nel mondo libero, perché così hanno potuto studiare e fare un gran bene.

Don Ľudovít Suchán SDB, missionario in Giappone, ricorda:
Il funerale fu impressionante. Non esagero: non soltanto esteriormente si trattò di un vero trionfo di solidarietà e di gratitudine, ma anche interiormente, in quanto l’unità dei sentimenti, espressa nelle parole e nelle lacrime, fu una cosa rara. Mi è rimasta impressa in mente una frase dell’ispettore: “Eccellenza, di nuovo ci troviamo davanti al sepolcro aperto di un sacerdote. So che vorrebbe ordinare un sacerdote piuttosto che seppellirlo… Se ogni sacerdote che muore in Slovacchia lasciasse un patrimonio spirituale come don Titus, i funerali dei sacerdoti slovacchi non sarebbero segno di perdita, ma rafforzamento delle file dei sacerdoti. Il Signore gli sia premio eterno per il suo eroico sacrificio e per quanto fece per la Chiesa e per il nostro popolo”.